
Nel caso Garlasco, a un certo punto, tutto è diventato una questione di DNA. Come se la scienza, da sola, potesse chiudere ogni dubbio.
Nel racconto mediatico, il DNA è stato presentato come la prova definitiva. Oggettiva. Infallibile. Incapace di mentire.
Ma il processo ha mostrato una verità molto più scomoda.
Il DNA non parla da solo. Va raccolto. Conservato. Analizzato. Interpretato. E ogni passaggio è affidato a mani umane.
Nel caso Garlasco, le perizie si sono contraddette. Gli esperti hanno discusso pubblicamente. Le stesse tracce sono state lette in modi diversi, a volte opposti. La scienza, invece di chiudere il caso, lo ha complicato.
Per l’opinione pubblica è stato uno shock.
Perché negli ultimi anni il DNA era diventato una sorta di verità assoluta. Un linguaggio tecnico a cui affidarsi senza fare domande.
Ma la scienza forense non è una formula magica. È uno strumento. Potente, sì. Ma fallibile.
Nel dibattito mediatico, però, questa distinzione è spesso scomparsa.
Il DNA è stato usato come argomento d’autorità. Come parola finale. Come se bastasse pronunciarlo per mettere a tacere ogni dubbio.
Chi osava sollevare domande veniva accusato di negare la scienza.
Ma chiedere come una prova è stata ottenuta non significa rifiutarla.
Significa comprenderla.
Il caso Garlasco ha mostrato un rischio concreto: trasformare la scienza in fede.
Quando il DNA diventa un dogma, non è più uno strumento di giustizia, ma un’illusione di certezza.
E in quel momento, il processo smette di cercare la verità e inizia a cercare conferme.
A distanza di anni, una cosa appare chiara: nel caso Garlasco, il problema non è stato il DNA in sé, ma l’idea che potesse risolvere tutto da solo.
Perché la scienza non sostituisce il dubbio. Lo richiede.
La vera domanda non è se credere o no al DNA.
Ma se siamo disposti ad accettare che anche la prova più scientifica abbia bisogno di essere messa in discussione.
Ed è forse questo che continua a inquietare l’Italia.